Nata sotto una pianta di datteri: tra rappresentazione ed autocompiacimento

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Le premesse perché fosse un evento, ed uno spettacolo, da ricordare c’erano tutte. La suggestiva location dell’arena all’interno del museo di Pietrarsa, la presenza di  Pamela Villoresi, il pubblico numeroso che occupa ogni singolo posto, una scenografia essenziale ma che si lascia ricordare ed il clima caldo che sembra riecheggiare l’arsura del Maghreb. Nonostante tutto ciò, il dubbio di aver assistito ad uno spettacolo a metà strada tra la rappresentazione ed il narcisismo ancora non mi abbandona.

Ma procediamo con ordine. La storia narra di due donne, entrambe nate sotto una pianta di datteri, la prima (la Villoresi) è l’anziana matriarca Leyla, l’altra è la giovane nipote Yusdra (nipote prediletta e figlia di sapienza) che è in occidente, oltre il mare. Tra le due vi è vicinanza di pensiero e distanza geografica, ma non solo, vi sono cose che la prima cela alla seconda, cose che appartengono al destino ed al compimento dello stesso e che sono nel finale dello spettacolo si risolveranno in maniera definitiva. Ad intervallare l’ideale dialettica tra i due spiriti femminini la figura di un uomo, narratore, cantastorie, musico e rappresentazione della violenza della menzogna e rivelazione di una realtà cruda e difficile.

La vicenda, liberamente tratta dal libro Yusdra e la città della sapienza di Daniela Morelli, vuole mettere in primo piano ciò che è il ritorno. Ritorno inteso come ritorno alle origini, ritorno a se stessi, ritorno alla sapienza, alla profondità di pensiero e ad una vita autentica.

Lo spettacolo trova i suoi momenti più alti nella magistrale interpretazione della Villoresi che si cala alla perfezione nei panni dell’anziana e cagionevole Layla attraverso racconti di modi d’essere più che di pragmatiche vicende. Ma è proprio questi momenti di maggior vigore attoriale che si celano anche i punti deboli del tutto. Il personaggio di Yusdra, infatti, sembra raccogliere le briciole della bravura della protagonista, sembra essere messa li come a fare da contorno al tutto. Un personaggio che sembra svilupparsi solo in parte e che anche alla fine della vicenda resta indeterminato. Un personaggio che troppo spesso si smarrisce all’interno dei lunghi monologhi di Layla. E questo smarrimento è lo stesso che attanaglia anche il pubblico.

Certo alla fine gli applausi generosi arrivano e mettono in eccellenza un lieto fine troppo scontato. Ma la realtà è che la rappresentazione gode di momenti stanchi, il ritmo non è sempre vivo ed il narcisismo verbale, un puro esercizio retorico ha la meglio sulla vicenda tutta.

Sarebbe potuta essere una ottima prova corale ma in realtà vi è stato solo ed unicamente il trionfo del soliloquio.

Andrea Angelino

Redazione

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